“Cosa bolle nello zaino” rubrica dedicata alla cucina dell’entroterra abruzzese, a cura di Anna Chiara Bezzu

Percorrere i sentieri delle nostre montagne, condividere la bellezza dei paesaggi, la dolcezza dei suoni, i profumi del muschio e delle foglie bagnate in inverno, o resinosi dei boschi di conifere, ci rende partecipi di un’unica esperienza che si concretizza nella condivisione di tutto ciò che abbiamo riposto nello zaino: una fetta di pane casereccio, un pezzo di salsiccia, un sorso di vino generoso e tante risate.

IL PANCOTTO

QUELL CHE TRUV’ MITT’

E QUELL CHE MITT’ TRUV’

Chi in Abruzzo non ha mai mangiato il pancotto? Il piatto povero per antonomasia della cucina contadina che non racconta solo la tradizione attraverso l’umiltà del pane cafone e degli ingredienti semplici, ma la storia dei nostri nonni e l’arte di arrabattare. Il pancotto, come l’acquasale (stesso procedimento ma a freddo), ha origini antichissime: il gastronomo romano Apicio ne parlava nel trattato “De re coquinaria”, la “Puls Tractogalata”, antenata del nostro pancotto, veniva utilizzata anche per lo svezzamento dei bambini quando le risorse alimentari erano poche e veniva consigliata alle puerpere perché si pensava che favorisse l’allattamento.

L’umiltà e la semplicità degli ingredienti narrano e descrivono pienamente la vita quotidiana, fatta anche di stenti, dei nostri nonni che ritenevano pagnotte e filoni un cibo sacro e mai li avrebbero sprecati. Le donne erano solite panificare ogni 10/15 giorni filoni anche di 5 kg l’uno, secondo le necessità della famiglia e, quando il pane diventava irrimediabilmente duro, bisognava aguzzare l’ingegno per renderlo di nuovo appetibile. La ricetta base del pancotto è quella che di solito veniva fatta mangiare ai bambini: pane raffermo, olio e alloro. E poi si varia con la versione più saporita che prevedeva le verdure: erano quelle selvatiche per i più poveri, raccolte sulla strada del ritorno dai campi, i cacigni, la borragine, la rucola, i finocchietti selvatici, la cicoria; mentre chi aveva il proprio pezzetto di terra le coltivava soprattutto per venderle al mercato lasciando per la famiglia le foglie più rovinate o, soprattutto in questo periodo di primavera inoltrata, le piante ormai “spigate”, piante ormai fiorite e legnose, ma che stracotte e aggiunte al pane duro, rendevano il piatto saporito e appetitoso.

Ingredienti

Ingredienti:

800 gr di broccoletti puliti;
500 gr di pane di grano duro o, meglio ancora, con le patate, raffermo;
1,5 lt di acqua;
2 spicchi di aglio rosso di Sulmona;
olio EVO;
Sale;
Peperoncino

Procedimento:

Pulire e lavare le verdure. In un tegame ampio scaldate l’olio con gli spicchi di aglio e peperoncino. Aggiungere la verdura, coprirla con l’acqua e cuocerla coperta per circa 25 minuti. Togliere l’aglio e aggiungere il pane raffermo fatto a pezzi. Fate stufare e girate spesso fino a che il pane diventerà tutt’uno con la verdura disfatta. Servire caldo accompagnandolo con un buon bicchiere di vino Montepulciano. Buon Appetito

 

LA PIZZA CON GLI SFRIGOLI

Chi pija la moje sta cuntentu 'nu jorn,

chi ccide lu porc sta cuntend n'ann.

(Chi prende la moglie è contento un giorno,

 chi uccide il maiale è felice per un anno.)

La saggezza popolare raggiunge concetti altissimi con poche parole. Dietro un detto che apparentemente può apparire sessista, si celavano le verità del vivere quotidiano: il sostentamento familiare girava attorno al maiale. Dovevano ritenersi fortunati coloro che potevano permettersi di allevare un maiale: avevano di che mangiare per un anno intero. Nelle famiglie più povere, poi, il maiale era considerato il bene più prezioso, voleva dire la vita per i propri figli. Capita ancora di sentire raccontare dai nostri vecchi, lontani ricordi di estrema povertà, di famiglie numerose che vivevano in povere case, ammassati in un unico stanzone insieme al maiale che grufolava fuori e dentro casa. E capitava che quest’ultimo saziasse la sua voracità divorando il neonato lasciato incustodito da genitori indaffarati nei lavori nei campi. Ci si disperava, ma la bestia era sacra, erano i crudeli codici della sopravvivenza. E poi da gennaio ci sarebbe stata la nemesi: per un’ovvia legge del contrappasso ci si nutriva dell’animale che si era nutrito con la carne della loro carne.

Del maiale, come è ben noto, non si butta niente. Non solo carne, quindi, ma anche il lardo, lo strutto e il “battuto” usati come condimento in sostituzione dell’olio

Gli sfrigoli erano lo scarto della sugna: un particolare pezzo del maiale, fatto a pezzi, messo in un grosso tegame e fatto sciogliere lentamente. Man mano che si scioglieva il grasso, questo liquido veniva messo dentro dei barattoli: era lo strutto. I rimasugli non sciolti di questa procedura erano gli sfrigoli. E con gli sfrigoli si ottiene una pizza buonissima, croccante per via del grasso, e gustosa

Ingredienti:

500g di farina 0
275g di acqua
12g di strutto
12g di sale
100g di sfrigoli
8g di lievito di birra
1/2 cucchiaino di zucchero

Preparazione:

sciogliere il lievito e lo zucchero nell'acqua. Versare a fontana la farina sulla spianatoia ,fare un buco nel mezzo, versarci l’acqua con il lievito e impastare brevemente, dopodiché aggiungere il sale mescolato con lo strutto tiepido e infine gli sfrigoli tiepidi. Impastare fino ad ottenere un composto liscio e omogeneo, formare una palla e metterla a lievitare in una ciotola fino al raddoppio. Una volta raddoppiato stendere l'impasto in una teglia di circa 28 cm oleata e infarina. Coprire la teglia e lasciar riposare il tempo necessario a che il forno raggiunga la temperatura di 220°. Sfornarla e gustarla in allegria accompagnandola con un buon bicchiere di Montepulciano!

Il SANGUINACCIO

Era Jənnàrə: passàtə già Natalə
r’addòrə də fichəra secchə e mandarinə
chi gné usanza də paese nusctrànə,
sagliéva ‘n cielə e arrécascava ‘n zinə.
Rə puorchə sctava allèrə e spənzierate?
déndrə alla sctrélla ləcchènnəsə la vrénna,
e rə pullusctrə pəguliéva chiènə
chi gné ‘nə ninnə ca sctà dendrə alla scionna.
Può ‘nə cuttùrə appìsə alla caténa
déndrə sanghə vullutə e ingrediéndə.
Rə fuochə flambəjèva léna e léna
sfréghələjènnə chi gné ‘nə trisctə candə.
Sié misə la cannella, e può la ‘nzogna!
Dəceva nonna, sapènnə la rəcetta.
La ciucculàta, də purtəàlle cogna,
‘nə pizzəchə də salə e ‘na nucétta.
E quill’addòrə zə spannéva attornə,
fəcchènnəsə alle sfrischə e allə cavùtə
ca lə “bon’alma də rə cuambesàndə”
z’addəcrəjèvenə dendrə arrə tavùtə.
Quanda fellə də panə sié təgnùtə
nerə chi gné lə nottə də rə viérnə
Rə tiémbə ch’è passatə zə n’è jutə
gnà zə nə va e zə ‘mbràceta sctà carnə.
                                                                                             (Gustavo Tempesta Petresine)

Siamo a gennaio, nel pieno dell’inverno. Il mese nel quale ci si aspetta il freddo più pungente: tradizione vuole che gli ultimi giorni di gennaio, i giorni della merla, siano i più gelidi di tutto l’inverno; e il freddo, si sa, conserva. Il periodo migliore, quando non c’erano frigoriferi e congelatori, per lavorare la carne, per conservarla, per immagazzinarla. E’ il mese nel quale si venera il protettore degli animali: sant’Antonio Abate, il santo accompagnato dal maialino.
Il maiale, il “salvadanaio” della famiglia contadina, simbolo dell’abbondanza nella tradizione contadina, occupava un posto importante nell’economia della famiglia contadina, tant’è che ancora oggi viene consentita la macellazione a domicilio durante il periodo invernale. L’uccisione del maiale, un vero e proprio sacrificio rituale sotto la protezione di S. Antonio Abate, per le famiglie contadine abruzzesi, era un’importante occasione di festeggiare a tavola con parenti e amici, uno di quei pochi momenti di abbondanza “rascia” durante l’anno. Subito dopo l’uccisione dell’animale, praticata dall’esperto scannapuorc’, a dimostrazione del detto:” del maiale non si butta niente”,  si raccoglieva il sangue, utilizzato per fare il sanguinaccio. Versato ancora fresco nel “cutturo” – recipiente di rame stagnato all’interno e utilizzato per la cottura nel camino – assieme a mosto cotto, cioccolato fondente a pezzi, noci sgusciate e tritate, bucce di arance, si cuoceva a fuoco molto lento, mescolando di continuo fino a ottenere una sorta di marmellata, che tolta dal fuoco si conservava in barattoli. Il sanguinaccio abruzzese si mangia preferibilmente spalmato sul pane, anche se c’è chi preferisce gustarlo con le "pizzelle" o con biscotti savoiardi.

INGREDIENTI

200 g di cioccolato fondente
150 g di zucchero
50 g di cedro candito
50 g di burro
1 l di mosto cotto
1 l di sangue freschissimo di maiale
1 stecca di cannella
50 g di mandorle
50 g di pinoli
2 arance

Preparazione

Filtrate il sangue di maiale appena ucciso con un colino a maglie fitte. Il sangue non deve avere più di qualche ora, altrimenti coagula e non si può usare. Mettetelo in una pentola, diluitelo con il mosto cotto, unite il burro e la stecca di cannella, quindi ponete la pentola su fuoco dolcissimo. Mescolate continuamente, badando che il composto sobbolla appena senza raggiungere l’ebollizione. Lasciatelo cuocere per un’ora e mezzo. Unite il cioccolato fondente grattugiato, lo zucchero, i pinoli triturati grossolanamente, la scorza gialla delle arance tagliata a julienne, le mandorle pelate e triturate, il cedro candito anch’esso tritato. Continuate la cottura a fiamma bassissima e mescolando continuamente per almeno 3 ore. Potete gustarlo subito oppure conservarlo in vasi di vetro che andranno sterilizzati, come una normale marmellata.

ANELLI ALLA PECORARA

I giorni di festività, ma anche la domenica, erano l’occasione per riunire tutti i familiari e parenti intorno al tavolo. Possiamo dire che dopo aver santificato le feste con il rito cattolico, si passava ad omaggiarle con un piatto succulento, che nell’accezione della tradizione della cucina abruzzese, voleva significare pasta “ammassata”. E quanti più numerosi erano i commensali, tanto più si dava un senso alla fatica delle fasi preliminari: una vera e propria celebrazione dell’operosità delle donne. Pur nella semplicità della cucina contadina, è una preparazione sontuosa. Questo piatto è una sorta di grande affresco della civiltà pastorale dell’Appennino, dagli oliveti ai boschi, dagli orti ai pascoli della Maiella e del Gran Sasso. In versione odierna si usa carne di manzo, ma andando indietro nel tempo, quando i bovini erano innanzitutto animali da lavoro, il ragù era più spesso di carne ovina: non tanto l’agnello, destinato alla mensa pasquale, quanto piuttosto il castrato, la pecora e il montone, con un’intensità di sapore che si può ben immaginare.

Ingredienti per la pasta: Gr 600 di farina e sei uova

Ingredienti per la salsa :Passata di pomodoro Gr 100di guanciale Gr.100 di polpa di agnello ½ cipolla

Inoltre: 1 zucchina 1 melanzana 1 peperone pecorino grattugiato e ricotta di pecora

Per tempo tagliare le verdure a tocchetti e friggerle separatamente.
Setacciare la farina su una spianatoia, fare un buco nel mezzo, sgusciarvi le uova e “ammassare” fino a ottenere una palla liscia. Coprite con del cellophane e lasciatela riposare per mezzora. Dopo di che tiratela in cordoncini sottili, girateli attorno al dito e fate tanti anellini.

Quanto al sugo, rosolare il trito di cipolla, la dadolata sottile di guanciale e dopo qualche minuto aggiungere la polpa di agnello sempre a dadini; lasciare soffriggere ancora per un paio di minuti e versare la salsa di pomodoro, lasciando sul fuoco a rapprendere per un quarto d’ora; alla fine aromatizzare con qualche foglia di basilico e tenere da parte in caldo.

A tempo debito lessare la pasta per 5-6 minuti, scolarla bene e ripassarla in padella con il sugo di carne, le verdure soffritte, lasciandone un po’ da parte, e il pecorino grattugiato, mescolando ancora per un paio di minuti.

Impiattare velocemente aggiungendo le verdure rimaste e aiutandovi con uno schiacciapatate, distribuite sulla pasta della ricotta di pecora freschissima. Abbinateci un buon Cerasuolo. Buon appetito!

LE PALLOTTE CACIO E OVE

La cucina contadina o pastorale era povera per antonomasia. La principale necessità era nutrirsi con pochi e umili ingredienti cercando di soddisfare anche il palato. Si sa, la carne era alimento per pochi eletti  e le nostre donne aguzzavano l’ingegno creando e inventando ricette che la soppiantavano interamente ma che non deludevano il gusto. Le pallotte cacio e uova (Pallotte cace e ove) sono il cavallo di battaglia della cucina abruzzese. Come tutti i piatti poveri derivano dalla tradizione contadina o pastorale e nascono per supplire alla scarsità di carne, soprattutto durante la guerra. Infatti, con l’invasione tedesca le case contadine venivano saccheggiate ed i contadini stessi erano costretti a nascondere del formaggio, qualche pezzo di pane e delle uova sotto i mattoni. Le donne per poter sfamare i propri figli inventarono questo delizioso pasto. Dopo la guerra continuarono a cucinare questo piatto, ma per altre necessità, come le lunghe giornate in campagna dove serviva un pasto veloce e nutriente. Le Pallotte Cacio e Ova, infatti, non sono altro che polpette preparate con pane raffermo, formaggio e uova, fritte e condite con un sugo di pomodoro. Un ottimo secondo piatto di antica tradizione e basso costo.

Per le pallotte:

 Pane raffermo 300 gr

 Pecorino 300 gr

 Latte 1 bicchiere

 4 uova

 Aglio rosso di Sulmona 1 spicchio

 Prezzemolo tritato 1 cucchiaio

 Olio extravergine di oliva

 Pepe

Per la salsa:
 Pomodori maturi 400 gr

 Peperone verde 1 falda

 Aglio rosso di Sulmona 1 spicchio

 Basilico a piacere

 Olio extravergine di oliva 3 cucchiai

Bagnate il pane nel latte e lavoratelo fino ad ottenere un composto omogeneo. Quindi strizzatelo per eliminare il latte.
In una ciotola mescolate le uova con il pecorino grattugiato, il prezzemolo, l'aglio tritato, un pizzico di pepe e il composto di pane. Lasciate riposare per qualche ora in frigo.
Formate delle polpette e friggetele nell'olio bollente, scolatele sulla carta assorbente. Potete servirle semplicemente fritte come antipasto, oppure ripassate nel sugo.

Per preparare il sugo versate in una padella capiente l'olio e insaporite con l'aglio e il peperone. Versate il pomodoro e un bicchiere d'acqua e portate a bollore. Fate asciugare l'acqua, quindi profumate con il basilico e terminate la cottura. Unite le pallotte fritte al sugo e lasciate insaporire per qualche minuto mescolando più volte. 

Servite decorando il piatto con rametti di basilico fresco. Accompagnate con il solito bicchiere di buon vino Montepulciano.
Buon appetito

SURG’TIELL CO’ JI OR’B (gnocchi con gli orapi)

L’estate entra a grandi passi. Questo è il periodo dell’anno in cui la natura è nel pieno della sua compiutezza. Passeggiando sui sentieri, gli occhi e l’anima si riempiono di colori: il verde giovane dell’erba, l’esplosione cromatica delle genziane, dei ciclamini, delle peonie in fiore, gli alberi chiomati di smeraldo. E’ il periodo dell’anno in cui la natura è più generosa, la madre terra ti offre un’incredibile varietà di erbe mangerecce: i cacigni, le cicoriette,  l’erba pisciacane, le carote selvatiche, le punte di ortica, solo per ricordarne qualcuna. Tra le erbe più saporite e ricercate della terra d’Abruzzo un posto d’onore spetta agli orapi, o spinaci di montagna, la cui raccolta è limitata, appunto,  alla stagione estiva, in prossimità degli stazzi dove il terreno, dunque,  è maggiormente concimato. Ancora una volta è la nemesi del cibo povero, da piatto semplice dei pastori a vera ricercata prelibatezza. Gli orapi sono buoni comunque li cuciniate, lessati e poi ripassati in padella con aglio, olio e peperoncino o anche come protagonista del condimento, come nella ricetta che vi propongo oggi.

Per gli gnocchi:

 Kg 1 di patate vecchie;

 Gr.500 di farina 0 (o comunque quella che prende)

Lessare le patate, sbucciarle e schiacciarle su una spianatoia. Aggiungere la farina e impastare velocemente. Formare dei lunghi tubi e tagliare a tocchetti. A questo punto “incarrateli” o sul dorso di una forchetta o sulla spianatoia stessa premendo con un dito al centro dello gnocco e rovesciandolo.

Per il condimento:
 Kg 1 di orapi;
 Gr. 500 di pancetta tesa stagionata;
 Olio EVO;
 Aglio rosso di Sulmona
 Pecorino abruzzese grattugiato

Lavate gli orapi e metteteli a scolare. In una larga padella fate soffriggere a fuoco basso l’aglio rosso incamiciato nell’olio EVO. Eliminare l’aglio e aggiungere gli orapi che devono stufare dolcemente aggiungendo un po’ d’acqua calda nel caso si asciugassero troppo. Contemporaneamente tagliare a pezzetti la pancetta e soffriggerla in un’altra padella con un po’ d’olio EVO  fino a quando non diventi bella croccante. Nel frattempo fate bollire l’acqua in una capiente pentola, salatela e versate gli gnocchi. Quando verranno tutti a galla e l’acqua riprende il bollore vivacemente, scolateli aiutandovi con un mestolo forato, versateli nella padella dove avete stufato gli orapi, aggiungete la pancetta, spolverate con pecorino abruzzese stagionato grattugiato e saltate velocemente.

Impiattate e serviteli caldi caldi accompagnandoli con un buon bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo.

Buon appetito

Il Parrozzo

È tante ‘bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè,
c’avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove,
la terre grasse e lustre che se coce…
e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce…
Gabriele D' Annunzio

Come è ormai risaputo, la vita contadina abruzzese, scandita dal ritmo delle stagioni è caratterizzata da piatti realizzati con semplicità. Se sulle tavole dei signori era consueta la presenza del pane bianco, leggero e fragrante, sulla mensa dei contadini si consumava il pane preparato con farina di granoturco che gli conferiva il classico colore giallo, formato a mo’ di cupola e cotto al forno a legna. Veniva chiamato "pane rozzo" proprio per il suo aspetto scuro e per la sua umile origine.
Luigi D'Amico, agli inizi del secolo scorso, ebbe l’intuizione di ispirarsi a quel pane rozzo e di trasporlo in versione dolciaria: il giallo del granturco fu ottenuto con quello delle uova, alle quali aggiunse la farina di mandorle; lo scuro colore, dato dalla bruciatura della crosta del pane cotto nel forno a legna, fu sostituito con la copertura di cioccolato; la forma emisferica, invece, rimase inalterata. La prima persona alla quale Luigi D’Amico fece assaggiare il nuovo dolce fu Gabriele d'Annunzio, che, estasiato, suggerì di chiamarlo “Parrozzo” e volle celebrarlo con il sonetto che ho riportato all’inizio.
Solitamente il Parrozzo è associato alle festività natalizie, ma la diffusione commerciale, anche fuori regione, lo ha trasformato in dolce simbolo d’Abruzzo da apprezzare in ogni occasione.
Ho provato diverse ricette, ma, quella che più mi ha soddisfatto, è quella che vi riporto

INGREDIENTI

 Gr. 200 di mandorle intere, cioè con la buccia, macinate,
 Gr. 150 di semolino;
 Gr. 180 di zucchero;
 6 uova;
 Mezzo bicchiere di liquore misto (amaretto, rum)
 Zeste di mezza arancia;
 Zeste di mezzo limone;
Per la glassa:
 Gr. 150 di cioccolato fondente;
 Una noce di burro

 

In una ciotola montare i rossi con lo zucchero fino a quanto la montata diventi gonfia e chiara. Mescolando delicatamente, aggiungere  le zeste degli agrumi, il mezzo bicchiere di liquore, le mandorle macinate, il semolino e, da ultimo, le chiare montate a neve, avendo l’accortezza di unirle all'’impasto con movimenti circolari dall’alto in basso.

Versare l’impasto nell’apposito stampo a cupola imburrato e infarinato e cuocetelo in forno preriscaldato ad una temperatura di 180° per un’ora.

Sfornatelo, rovesciatelo su un piatto di portata e fatelo raffreddare.

Nel frattempo preparate la glassa sciogliendo il cioccolato, ridotto a pezzetti, con la noce di burro, a bagnomaria. Mescolatelo accuratamente fino ad ottenere una glassa liscia e lucida. Versatela sul dolce cercando di livellarla

Buon appetito. 

Peperoni all'Abruzzese

uogge è Sante Pampene,
nostre avvocate,
ce la facemme na scialate
de pane bianche a maccarune,
chesta è la festa de i cafune!

Tra qualche giorno è la festa di San Panfilo, patrono di Sulmona. La festa si celebra da epoche remotissime e si è sempre tenuta ad aprile, dopo Pasqua e, proprio perché si svolgeva in primavera inoltrata, oltre alla devozione religiosa, si caricava di significati antropologici e folkloristici particolari e muoveva ed animava tutto il mondo rurale e contadino. Ed ecco che intorno alla figura di san Panfilo sono nate diverse leggende, sono fioriti proverbi e detti popolari: San Panfilo il terzo cavaliere dopo San Giorgio e San Marco, suoi vicini di ricorrenza, San Panfilo acquaruolo, che sta ad indicare la copiosa piovosità del periodo, “Sante Pampene, la vigne spampene” cioè a San Panfilo le viti aprono le loro foglie (i pampini), quindi si entra nell’acme del risveglio primaverile. E così proprio a “Sante Pampene urtulane”, San Panfilo ortolano, si affidavano le speranze per futuri raccolti copiosi. San Panfilo diventava, quindi, nelle attese dei contadini, anche il protettore degli ortaggi e in special modo dei peperoni. E proprio con una ricetta con i peperoni anche noi vogliamo celebrare la festa di Sulmona.

 

 9 peperoni grandi (gialli o rossi)
 50 g di mollica di pane,
 olio d’oliva
 aglio rosso di Sulmona
 prezzemolo
 2 foglie di basilico
 40 g di pecorino grattugiato
 1 uovo
 Sale

Prendete sei dei nove peperoni e lasciateli interi tagliando la calotta e asportando i semi. Dopo aver finito le operazioni di pulitura, lavate e asciugate i peperoni con un panno asciutto. 

Prendete gli altri tre peperoni, mondateli eliminando i semi, i gambi e le coste e tagliateli in quadrati di media grandezza che farete soffriggere in padella con appena un goccio d’olio.

Finito questo passaggio, prendete la mollica di pane, dell’aglio che avrete opportunamente tritato insieme al prezzemolo e due foglie di basilico ed uniteli in un recipiente con l’uovo sbattuto, il pecorino, ed i peperoni che avete precedentemente fatto soffriggere.

Inserite il composto ottenuto nei peperoni lasciati interi, aggiungete un filo d’olio al loro interno e ponete i peperoni dentro una teglia leggermente unta: fateli cuocere in forno a 180°C fino a che non risulteranno cotti.

Serviteli molto caldi. Come al solito accompagnateli con un buon bicchiere di vino Montepulciano d’Abruzzo.           Buon Appetito!!

I FIADONI

La buona anguilla nonn-è già peg[g]iore;
Alose o tinche o buoni storioni,
Torte battute o tartere o fiadoni:
Queste son cose d’âquistar mi’ amore

Que’ che vorrà campar del mi’ furore, Dante Alighieri, Il fiore

Sta per concludersi la Quaresima. Occasionalmente il digiuno è stato interrotto tra biscotti quaresimali e zeppole di San Giuseppe. Ma la Pasqua si avvicina e ci si dedica alla cucina per festeggiarla. Soprattutto il Pane, in qualsiasi forma anche di sfoglia, e uova, intere o lavorate, la fanno da padrone in tutte le case e in tutti forni per dar vita a torte caserecce che un tempo abili massaie preparavano come doni di buon auspicio al vicinato.
Il Fiadone è uno di quei cibi che caratterizzano la tradizione pasquale. Già conosciuto nel Medioevo, ma anche del Rinascimento, avvezzo a gusti dolci-salati, diffuso in tutta la penisola, assai noto anche alla cucina ebraica, antichissimo: prima di Dante ne Il fiore, lo troviamo in documenti dell’XI-XII secolo. Anche etimologicamente il termine Fiadone ha antiche origini: Fiadone deriva dalla voce germanica, meglio longobarda, flado (nella forma latinizzata e accrescitiva fladonem) per designare una generica focaccia.
Nel periodo pasquale vengono preparati in abbondanza perchè accompagnano spesso le scampagnate di pasquetta, comodi da portare negli zaini per le gite in montagna con gli amici.
Come tutti i cibi tradizionali delle feste, non sussiste una ricetta specifica, ma esistono le ricette familiari, quelle che si tramandano, che magari nel tempo vengono variate solo in qualche dettaglio ma che rimangono uguali nel loro impianto. Si trovano fiadoni con ripieno salato, addirittura con pecorino e pezzetti di salame, ottimi per aperitivo e fiadoni semi dolci, quelli che preferisco.

Ingredienti per la sfoglia:
 Kg 1 di farina;
 4 uova;
 Gr. 100 strutto;
 1 bicchiere di latte;
 Zeste di limone;
 1 bustina di lievito;

Setacciare la farina sulla spianatoia e sgusciare le uova. Aggiungere gli altri ingredienti ed impastare fino ad ottenere un impasto liscio e compatto. Lasciarlo riposare coperto per un’oretta. Stendere l’impasto con la macchina stendi pasta, la mitica Imperia, in sfoglie non troppo sottili.

Ingredienti per il ripieno:
 Pecorino fresco gr. 500;
 Parmigiano gr. 250;
 Pecorino romano gr.200;
 Zucchero gr.300;
 6 tuorli;
 Cedro a pezzetti;
 Un pizzico di cannella

Grattugiare tutti i formaggi. Battere i tuorli con lo zucchero. Aggiungere i formaggi, il cedro e il pizzico di cannella. Amalgamare bene il tutto. Con un coppapasta ritagliare dei cerchi dalle sfoglie e mettervi al centro un mucchietto di ripieno, piegarle e sigillare bene i bordi con i rebbi di una forchetta. Spennellare la superficie con un tuorlo sbattuto e infornare ad una temperatura di 200° per venti minuti. Gustare con un buon bicchiere di vino rosso!

La PANONDA

“Marzo pazzo, agitatore” o “Marzo, soffia il vento in testa” o il più celebre:”una rondine non fa primavera”, sono detti popolari che indicano un mese che apre la porta alla primavera, ma non la spalanca. Un mese conosciuto come periodo di passaggio, che alterna temperature tiepide a giornate piovose, splendide mattinate assolate a improvvise nevicate e venti gelidi. E anche se la neve dura il tempo di una giornata perché subito il cielo schiarisce, si ha ancora voglia di cibi caldi, confortevoli, che riscaldano il palato. E’ ancora tempo di piatti succulenti, perché il palato sa che a breve si passerà a ortaggi colorati e fresche insalate.
Il vocabolo panonda, con i suoi annessi panόgnё ‘ungere’ e panùndё ‘unto (part.pass.)’, è diffusissimo nei dialetti abruzzesi e almeno in quelli delle regioni limitrofe. Dai linguisti viene spiegato col suo apparente significato di superficie ‘pane unto’. E’ anche vero che esiste il verbo semplice όgnё ‘ungere’ che ha lo stesso significato di pan-ógnë ‘ungere’, anche nel senso figurato di ‘corrompere qualcuno con regali vari per ottenere vantaggi economici’.  La panonda, quindi, è da interpretare nella doppia accezione di pane unto e/o cibo unto.
Comunque lo si intenda la panonda ha rappresentato uno dei principali alimenti per i nostri bis-nonni e nonni durante le giornate in campagna o nelle trasferte lavorative nelle montagne. Questa ricetta nasce calorica per dei motivi di necessità, non di gola. Era un piatto unico, pratico da trasportare e da mangiare, ed era sostanzioso per fornire tutte le energie necessarie.

Ingredienti:

200 g. pancetta fresca

400 g. salsicce

6 fette di pane casereccio

2 cucchiai d’olio extravergine d’oliva

Sale q.b.

Tagliate la pancetta a fettine di medio spessore

e la salsiccia a pezzi.

Mettete la carne in un tegame con l’olio.
Cuocete a fuoco basso girando spesso con un cucchiaio di legno.
Quando la carne è cotta toglietela dal tegame e riponetela al caldo.

Friggete nel grasso lasciato dalla pancetta e dalle salsicce

nel tegame le fette di pane a fuoco vivace.

Salate e distribuite la carne e le fette di pane nei piatti di portata.
Accompagnare il tutto con l’immancabile bicchiere di buon vino Montepulciano. Buon appetito!

La POLTA

La cucina povera vanta anni e anni di tradizione. La vera cucina povera è quella dei contadini che, nell’impossibilità di procurarsi cibo da “signori” come carne, pesce e pane fresco si arrabattavano mescolando l'arte culinaria con un’altra arte ben più nota: quella di arrangiarsi.
In fondo le più grandi scoperte della gastronomia sono avvenute un po' per caso, un po' per fantasia, un po' per necessità.
Erano piatti semplici, composti da pochi elementi, coltivati nell’orticello di famiglia, che dovevano soprattutto saziare e, poi, anche nutrire.
Erano soprattutto piatti stagionali: si cucinava con quello che la terra offriva e che terminava a fine stagione. Non per nulla il più alto numero di morti infantili avveniva all’inizio della primavera, quando le scorte invernali erano terminate e le primizie non erano ancora pronte per essere raccolte.
E anche la stagionalità non è un caso: gli ortaggi invernali resistono a lungo, saziano e sono nutrienti. Sono solitamente sempre cotti: si scalda lo stomaco, (i nostri contadini dicevano “la vita”) si scalda il cuore.
La Polta risponde a tutte queste caratteristiche. Pochi ingredienti, tutti invernali.
E’il piatto che trae le sue origini dal paese di Pacentro dove fino a qualche anno fa’ si celebrava la sagra.
La nemesi della cucina povera,  un tempo ci si vergognava a mangiarla; ora, con essa, si attirano i turisti.

Ingredienti

 Una verza piccola;
 Fagioli borlotti (apani) lessati;
 4 patate a tocchetti;
 Aglio rosso di Sulmona;
 Olio EVO;
 Peperoncino;
 Sale;

Pulire la verza, tagliarla a listarelle e tenere da parte.
In un'ampia padella versare l'olio, unire lo spicchio di aglio e un peperoncino, lasciare soffriggere a fuoco dolce per profumare l'olio senza far bruciare l’aglio.

Unire la verza e farla stufare lentamente. Aggiungere i fagioli precedentemente lessati e le patate a tocchetti, cuocere lentamente, coperti, fino a che gli ingredienti non risulteranno morbidi e le patate quasi disfatte, nel caso allungare con dell'acqua. Aggiustare di sale. 

Far ritirare secondo il gusto personale. Si può mangiare come minestra o più densa e fredda, o come un contorno. Accompagnare con delle fette di pane di patate bruschettato e, come al solito, con un buon bicchiere di vino Montepulciano.

La CICERCHIATA

Carnevale vecchio e pazzo
s’è venduto il materasso
per comprare pane, vino,
tarallucci e cotechino.
E mangiando a crepapelle
la montagna di frittelle
gli è cresciuto un gran pancione
che somiglia ad un pallone.
Beve, beve all’improvviso
gli diventa rosso il viso
poi gli scoppia anche la pancia
mentre ancora mangia, mangia.
Così muore il Carnevale
e gli fanno il funerale:
dalla polvere era nato
e di polvere è tornato.

“A carnevale ogni scherzo vale” quindi tutto è lecito: le esuberanze goliardiche, le burle eccessive e gli eccessi culinari. L’ultimo giorno prima del periodo penitenziale della quaresima quando si mangiavano tutte le cose migliori rimaste in casa. D’altronde la parola carnevale deriva dal latino "carnem levare" ("eliminare la carne") poiché anticamente indicava il banchetto che si teneva l'ultimo giorno di carnevale (martedì grasso), subito prima del periodo di astinenza e digiuno della Quaresima.
Se  S. Agata si celebra assaggiando le prime cioffe, per carnevale, oltre quest’ultime, si prepara la cicerchiata, un dolce simile agli struffoli natalizi napoletani ma senza canditi. Con tutta probabilità il nome di cicerchiata ha origine medievale e deriverebbe dalla cicerchia e dal cece, quindi starebbe a significare mucchio di cicerchie.

Ingredienti

 Gr. 500 farina;
 5 uova;
 5 cucchiai di zucchero;
 5 cucchiai di olio;
 Zeste di mezzo limone;
 Mezzo cucchiaino da caffe di lievito;
 Gr. 500 di miele

In una ciotola unite uova e zucchero e montatele a schiuma.
Sulla spianatoia setacciate la farina, fate una fontana e versate dentro le uova sbattute, l’olio, le zeste di limone meglio se biologico, il lievito.

Fare una palla di pasta e lasciarla riposare almeno mezz'ora

tagliarne un pezzetto per volta e allungare a budello, è necessario che il piano di lavoro sia sempre infarinato, tagliare a cubetti, i famosi "ciciarelli"

da friggere in abbondante ottimo olio d'oliva e. v. in una padella di ferro a base larga. 

Scaldare il miele in un largo tegame con mezzo cucchiaio di zucchero, quando il miele versare i ciciarelli già fritti. Con un mestolo di legno mescolare affinché si impregnino ben bene di miele e fargli prendere colore per un po'.
Ancora calda rovesciare la cicerchiata su dei piatti cosparsi di zucchero o su un piano di legno. Con le mani bagnate dare la forma voluta

Possono essere cosparsi di confettini colorati come coriandoli.                      BUON CARNEVALE!!!

LE CIOFFE di Anna Chiara

Sono il più piccolo dei fratelli,
per arrivare faccio balzelli.
Ogni quattr’anni mi allungo di un giorno,
ma l’anno dopo piccino ritorno.
Non sono sarto, non son calzolaio,
non sono dottore e non porto il saio,
ma delle chiacchiere son buongustaio
è stato un piacere sono FEBBRAIO

Si sa, febbraio vuol dire martedì grasso, cioè Carnevale. L’aggettivo “grasso” si riferisce ai bagordi e alle abbuffate a cui ci si abbandonava in questa data, trattandosi dell’ultimo giorno utile di godimento prima dell’arrivo del Mercoledì delle Ceneri, avvio della Quaresima cristiana e quindi di un lungo periodo di astinenza dai piaceri del palato.

Il Martedì grasso è preceduto da un altro giorno identificato dalla tradizione del Carnevale come licenzioso e “abbondante”, il Giovedì grasso, ovvero il giovedì della settimana che precede il Martedì grasso. Va da sé che il cibo grasso per antonomasia, è la frittura: infatti tutti i dolci carnascialeschi si dorano nell’olio bollente. Cioffe, castagnole, cicerchiata, bignè fritti…..e non si venga a dire che possono essere cotti  anche al forno, non sarebbe Carnevale……
A Sulmona la tradizione vuole che il primo assaggio di cioffe si faccia il 5 febbraio, giorno di sant’Agata. Non esiste “LA” ricetta delle cioffe, ogni famiglia conserva la sua che, come al solito, sarà sempre la più buona

Ingredienti

      -Gr 600di Farina   -4 uova   -4 cucchiai di zucchero   -Mezzo bicchiere di olio di semi         -1 bacca di vaniglia   -1 bicchiere di liquore (io preferisco la sambuca)   -Zeste di Limone  

 

Procedimento

Setacciare la fontana sulla spianatoia, fare un buco nel mezzo e sguscarvi le uova, aggiungere lo zucchero e mescolare.

Versare l’olio, il bicchierino di liquore,

 le zeste di limone e i semini della bacca di vaniglia.

Impastare fino ad attenere un impasto liscio e ...

... stenderla con la macchina stendi pasta, la mitica Imperia

fino ad ottenere una sfoglia sottile che verrà poi tagliata con la rotella dentellata.

Friggere le cioffe in abbondante olio bollente,

scolarle su carta assorbente e cospargerle di zucchero semolato. Accompagnarle con del vino dolce passito. Buona festa!

Zuppa di Fagioli e Castagne

Durante le escursioni sulle nostre montagne, uno dei momenti più attesi, vuoi per la stanchezza, vuoi per l’appetito, è quando ci si avvicina ad un rifugio, dove trovare riparo se il tempo è brutto, dove trovare conforto se si è stanchi, ma dove, soprattutto, si sublima l’amicizia e la convivialità con la condivisione del cibo che fino ad allora pesava sulle spalle. E allora in poco tempo e febbrilmente si sistemano panche e sedie, anche fortunosi tronchi d’albero, e si svolgono incarti, si aprono contenitori, si affetta, si versa, si offre, si spartisce e l’allegro chiacchiericcio, le battute ironiche per brevi attimi si placano: le bocche piene emettono solo mugolii di soddisfazione. Ogni cibo diventa buono, appetitoso, anzi ottimo, anche quello insipido, anche il tofu dopo un sapido tocco di pecorino, anche due uova fritte che da una vita hai aborrito, ma che la generosità di chi le ha approntate, ha reso prelibate. Io lo chiamo cibo allegro.
Nel rifugio del Pelosello, “eroici” trekker hanno trasportato una cucina economica, quelle stufe alimentate con la legna che permettono di scaldarsi e di cucinare e che ha permesso di riscaldare il piatto che avevo preparato per il pranzo dell’escursione:

Ingredienti

Gr 300 di fagioli borlotti (apani) secchi;
gr 200 castagne secche;
2 spicchi di aglio rosso di Sulmona;
1 rametto di rosmarino;
qualche foglia di salvia;
una scatola di pelati;
olio EVO
peperoncino q.b.

La sera precedente mettere a bagno in due recipienti diversi i fagioli

e le castagne e tenerle in ammollo tutta la notte . 

Il giorno dopo risciacquarle a lungo e metterle a lessare sempre in due pentole diverse spegnendole quando non sono cotte del tutto. 

In un largo tegame soffriggere gli spicchi d’aglio rosso di Sulmona con l’olio EVO, il rametto di rosmarino e il peperoncino fino a quando l’aglio sarà dorato

A questo punto togliere l’aglio e il rosmarino e aggiungere i pomodori pelati che precedentemente avrete sminuzzato e strizzato leggermente, aggiungere le foglie di salvia, aggiustare di sale  e far restringere brevemente la salsa.

Aggiungere i fagioli e le castagne e allungare, se necessario, con l’acqua di cottura dei fagioli. Terminare la cottura dei fagioli e delle castagne fino a quando anche la salsa si è addensata. Chi volesse può finire la cottura aggiungendo delle sagnette impastate solo con acqua e farina.

Accompagnare il piatto con un buon bicchiere di vino rosso Montepulciano. Buon appetito!!!

Lu Cif e Ciaf

Bona sera, car'amice,
tutte quante cristiane,
questa sera v'aije a dice
de la feste de dumane.
Ca dumane è sant'Antonie,
lu nemiche de lu demonie.

E già, siamo a gennaio, mese dedicato al culto di Sant’Antonio protettore degli animali. Nell’iconografia lo si vede sempre accompagnato da un maialino con un campanello al collo. Il 17 gennaio tradizionalmente la Chiesa benedice gli animali e le stalle ponendoli sotto la protezione del santo. La tradizione di benedire gli animali (in particolare i maiali) non è legata direttamente a sant'Antonio: nasce nel Medioevo in terra tedesca, quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale da destinare all'ospedale dove prestavano il loro servizio i monaci di sant'Antonio. Quasi in antitesi con questa tradizione, il mese di gennaio è anche il mese durante il quale, anche per le fredde temperature, “s’ accid lu puorc”.
Il giorno dell’uccisione del maiale è giorno di festa nelle case e s’invitavano parenti ed amici a partecipare. Un detto abruzzese dice “orto e porco, ricchezza della casa”, infatti del maiale si usa ogni parte: coppa, salami, salsicce, prosciutti, ma non solo…guanciale e pancetta per i sughi e le verdure, lardo per i condimenti, persino il sangue, con cui si faceva e, in qualche casa si continua a fare, il sanguinaccio, che, a seconda della cioccolata aggiunta, diventava una buonissima crema spalmabile.
A sera si riunivano tutti intorno alla tavola imbandita e si assaggiava il maiale , con gli scarti della lavorazione si preparava questa pietanza saporitissima.
E allora ecco la ricetta che riporta al più tipico piatto povero abruzzese, al rito del maiale e al pasto che consacrava la fatica avvenuta e festeggiava la gioia dell’abbondanza nella sacralità dell’animale ucciso.  Cif e ciaf, suono onomatopeico che simboleggia il veloce tagliuzzare le spuntature dall’animale ancora appeso? Oppure il nome rappresenta lo sfrigolio della carne soffritta? O il veloce rimescolamento nella “frissora”?

Ingredienti:
1 Kg. carne di maiale (costatine, lombatine e pancetta) casereccio.
2 spicchi d’aglio rosso di Sulmona.
1 rametto di rosmarino.
1 bicchiere d’olio.
1 bicchiere di vino Trebbiano d’Abruzzo.
Peperoncino secondo gusto.
Sale q.b.

Procedimento:
Tagliate a piccoli pezzi la carne..

Scaldate l’olio in un tegame, possibilmente nella “frissora” di ferro.
Rosolate a fiamma vivace la carne con il rosmarino, il peperoncino e l’aglio.
Bagnate con il vino.
Portate a cottura abbassando leggermente la fiamma e girando spesso.
Servite appena pronto. La carne viene accompagnata da fette di pane casareccio da intingere nel sughetto

Si accompagna con un buon bicchiere di Montepulciano delle nostre cantine. Qualsiasi marca va bene: sono tutte ottime. Buon appetito

Agnell brucialengue (Agnello brucia lingua)

Nella cucina dell’entroterra abruzzese la parte della protagonista è sicuramente appannaggio della carne ovina che solitamente veniva consumata nelle occasioni importanti. Non era festa se non si cucinava e si presentava un agnellino da latte, solitamente cotto, con le dovute accortezze, al fuoco del camino. La brace doveva essere non troppo viva e la cottura dolce e lenta, pena una carne secca e stopposa
Sulla tavola di questi giorni di festa, quindi, la carne di agnello la fa da padrona e il piatto proposto oggi è particolarmente appetitoso poichè aromatizzato dalla marinatura

Fate marinare Kg 1,5 di agnello di Pacentro a pezzi, per almeno 2 ore, con olio, aglio rosso di Sulmona, peperoncino, rosmarino, 2 chiodi di garofano, sale, pepe in grani e mezzo litro di vino rosso.

Sgocciolate i pezzi di agnello dalla marinata, asciugateli, passateli nella farina

e fateli friggere in una larga padella con dei pezzetti di peperoncino, 2 spicchi d’aglio rosso e rosmarino. 

Aggiustate di sale e, a cottura ultimata, versate sull’agnello un bicchiere di vino bianco Trebbiano che lascerete evaporare a fuoco vivo. Servitelo caldissimo con un Montepulciano delle nostre cantine. Qualsiasi marca va bene. Sono tutte ottime. Buon appetito